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Susanna Fiona Murray, First contact, (2020) |
Cosa ci succede quando ci vediamo in una foto?
Ci guardiamo ogni giorno allo specchio, ma qualcosa cambia radicalmente quando ci vediamo in una fotografia.
Uno scatto può sorprenderci, disorientarci, a volte persino ferirci.
“Non mi somiglio”, “Sembro diversa”, “Mi vedo brutta”: quante volte ci capita di pensarlo?
Eppure, la fotografia non mente.
Ma nemmeno dice tutta la verità.
La nostra immagine corporea – quella che “vediamo” di noi – non è mai solo visiva: è un costrutto mentale complesso, costruito nel tempo, modellato da esperienze, sguardi ricevuti, parole ascoltate, confronti, ferite e aspettative.
Non coincide con ciò che vediamo allo specchio e nemmeno con ciò che vedono gli altri.
È, piuttosto, una narrazione interiore su come crediamo di apparire e su cosa pensiamo significhi quel corpo, per noi e per il mondo.
Una piccola morte
Roland Barthes, nel suo La camera chiara, scriveva che la fotografia è “una piccola morte”: un frammento di tempo strappato al flusso, immobilizzato per sempre.
Un corpo colto nell’istante in cui era vivo e presente, e che ora non esiste più.
Forse è proprio questo a turbarci.
La fotografia congela ciò che noi vorremmo sempre in movimento: la possibilità di modificarci, correggerci, negoziare la nostra immagine.
Ci mostra con freddezza. Ma se abbiamo il coraggio di fermarci a guardare davvero, ci dice anche la verità: non la verità ottica, ma quella emotiva.
Il corpo, oggi: tra pressioni e identità in costruzione
Per le ragazze più giovani, oggi, la costruzione dell’identità corporea è spesso schiacciata da immagini standardizzate, scolpite da filtri e ritocchi.
La chirurgia estetica entra precocemente nei corpi, modificandoli in funzione di un femminile ideale, stereotipato, spesso posticcio.
Ma questa pressione – più sottile, più interiorizzata – riguarda anche donne di 30, 40, 50 anni e oltre, che si sentono inadeguate, sbagliate, troppo o troppo poco.
Nel flusso di immagini iper-curate dei social, il corpo reale – imperfetto, vivo, mutevole – sembra quasi stonare.
Eppure, è proprio lì che abitiamo.
La fotografia come strumento terapeutico
Nel mio lavoro come psicoterapeuta, utilizzo anche la fotografia come strumento espressivo nelle sedute individuali, e di gruppo, con chi desidera esplorare il rapporto con il proprio corpo e la propria immagine.
Non si tratta di cercare immagini belle, ma vere: fotografie che svelano, che rimettono in circolo emozioni bloccate, desideri rimossi, vergogne antiche.
Spesso, una sola fotografia può diventare il punto di partenza per accedere a qualcosa di profondo: uno sguardo sfuggente, una posa rigida, una messa in scena che dice più di mille parole.
Fotografarsi – o essere fotografati – in un contesto protetto può diventare una forma di ascolto: uno specchio nuovo, capace di riflettere non ciò che dovremmo essere, ma ciò che siamo davvero.
Un invito implicito
A volte basta iniziare da una domanda semplice, e lasciarla sedimentare:
Cosa succede in me quando mi vedo in una foto?
Cosa sento, cosa rifiuto, cosa riconosco, cosa ancora mi manca per abitarmi?
Ciò che può sembrare un gesto banale – premere un tasto, fissare un’immagine – può rivelarsi un atto di contatto.
Con sé. Con il proprio corpo. Con la propria storia.
Vuoi migliorare il tuo rapporto con il corpo e con la tua immagine?
Nel mio studio a Pesaro (oppure online), offro la possibilità di una prima consulenza psicologica: uno spazio sicuro per iniziare a dare voce a ciò che senti guardandoti – dentro e fuori – e per comprendere insieme da dove partire per ritrovare un’immagine di te più autentica e abitabile. In alcuni percorsi, utilizzo anche la fotografia come strumento per accedere a emozioni profonde e rivedere lo sguardo che rivolgi a te stessə. Un modo diverso di ascoltarsi – visivamente, emotivamente, clinicamente.
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