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Ti guardi in una foto e non ti riconosci? La fotografia come strumento terapeutico | dott.ssa Susanna F. Murray

Corso XI Settembre, 32, 61121 Pesaro PU, Italia

Susanna Fiona Murray, First contact, (2020)


Cosa ci succede quando ci vediamo in una foto?

Ci guardiamo ogni giorno allo specchio, ma qualcosa cambia radicalmente quando ci vediamo in una fotografia.

Uno scatto può sorprenderci, disorientarci, a volte persino ferirci.

“Non mi somiglio”, “Sembro diversa”, “Mi vedo brutta”: quante volte ci capita di pensarlo?

Eppure, la fotografia non mente.

Ma nemmeno dice tutta la verità.

La nostra immagine corporea – quella che “vediamo” di noi – non è mai solo visiva: è un costrutto mentale complesso, costruito nel tempo, modellato da esperienze, sguardi ricevuti, parole ascoltate, confronti, ferite e aspettative.

Non coincide con ciò che vediamo allo specchio e nemmeno con ciò che vedono gli altri.

È, piuttosto, una narrazione interiore su come crediamo di apparire e su cosa pensiamo significhi quel corpo, per noi e per il mondo.


Una piccola morte

Roland Barthes, nel suo La camera chiara, scriveva che la fotografia è “una piccola morte”: un frammento di tempo strappato al flusso, immobilizzato per sempre.

Un corpo colto nell’istante in cui era vivo e presente, e che ora non esiste più.

Forse è proprio questo a turbarci.

La fotografia congela ciò che noi vorremmo sempre in movimento: la possibilità di modificarci, correggerci, negoziare la nostra immagine.

Ci mostra con freddezza. Ma se abbiamo il coraggio di fermarci a guardare davvero, ci dice anche la verità: non la verità ottica, ma quella emotiva.


Il corpo, oggi: tra pressioni e identità in costruzione

Per le ragazze più giovani, oggi, la costruzione dell’identità corporea è spesso schiacciata da immagini standardizzate, scolpite da filtri e ritocchi.

La chirurgia estetica entra precocemente nei corpi, modificandoli in funzione di un femminile ideale, stereotipato, spesso posticcio.

Ma questa pressione – più sottile, più interiorizzata – riguarda anche donne di 30, 40, 50 anni e oltre, che si sentono inadeguate, sbagliate, troppo o troppo poco.

Nel flusso di immagini iper-curate dei social, il corpo reale – imperfetto, vivo, mutevole – sembra quasi stonare.

Eppure, è proprio lì che abitiamo.


La fotografia come strumento terapeutico

Nel mio lavoro come psicoterapeuta, utilizzo anche la fotografia come strumento espressivo nelle sedute individuali, e di gruppo, con chi desidera esplorare il rapporto con il proprio corpo e la propria immagine.

Non si tratta di cercare immagini belle, ma vere: fotografie che svelano, che rimettono in circolo emozioni bloccate, desideri rimossi, vergogne antiche.

Spesso, una sola fotografia può diventare il punto di partenza per accedere a qualcosa di profondo: uno sguardo sfuggente, una posa rigida, una messa in scena che dice più di mille parole.

Fotografarsi – o essere fotografati – in un contesto protetto può diventare una forma di ascolto: uno specchio nuovo, capace di riflettere non ciò che dovremmo essere, ma ciò che siamo davvero.


Un invito implicito

A volte basta iniziare da una domanda semplice, e lasciarla sedimentare:

Cosa succede in me quando mi vedo in una foto?

Cosa sento, cosa rifiuto, cosa riconosco, cosa ancora mi manca per abitarmi?

Ciò che può sembrare un gesto banale – premere un tasto, fissare un’immagine – può rivelarsi un atto di contatto.

Con sé. Con il proprio corpo. Con la propria storia.


Vuoi migliorare il tuo rapporto con il corpo e con la tua immagine?

Nel mio studio a Pesaro (oppure online), offro la possibilità di una prima consulenza psicologica: uno spazio sicuro per iniziare a dare voce a ciò che senti guardandoti – dentro e fuori – e per comprendere insieme da dove partire per ritrovare un’immagine di te più autentica e abitabile. In alcuni percorsi, utilizzo anche la fotografia come strumento per accedere a emozioni profonde e rivedere lo sguardo che rivolgi a te stessə. Un modo diverso di ascoltarsi – visivamente, emotivamente, clinicamente.


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Dott.ssa Susanna F. Murray
Psicologa Psicoterapeuta | Pesaro e Online


“Il corpo ci parla. La mente ci guida. 
La terapia ci accompagna a ritrovare noi stessi.”

Terapia senza risultati? A volte è proprio lì che comincia la cura

Corso XI Settembre, 32, 61121 Pesaro PU, Italia

 


Foto di Vlad Zaytsev su Unsplash      


Ci sono casi in cui i pazienti non si oppongono alla terapia. Non la ostacolano apertamente, non la interrompono. Ma neanche cambiano.

Restano.

Settimana dopo settimana, portando in seduta la sensazione che tutto sia fermo, sterile, “inutile”.

Come terapeuti, siamo abituati a tollerare il dolore, la rabbia, la resistenza.

Ma il gelo dell’impasse è un'altra cosa. È un paziente che viene, si siede, e sembra dirci: “Ecco, vede? Non serve a niente. Sono ancora così. E lei non può farci nulla.”


La tentazione di lasciar andare

Quando la terapia diventa un palcoscenico muto, in cui ogni parola scivola via, può emergere nel terapeuta il desiderio di lasciare andare.

Non per stanchezza personale, ma perché si ha l’impressione che non stia accadendo più nulla di terapeutico.

Il paziente, in queste fasi, spesso arriva a dire: “Non vedo cambiamenti. Forse è inutile continuare.”

Ma proprio in quel “forse è inutile” si nasconde qualcosa.

Una richiesta mascherata.

Un test.

Una ferita.


“Resterai anche se non mangio?”


Con alcuni pazienti a volte sento chiaramente che il punto non è più il cambiamento.

Il punto è restare nella relazione anche quando portano solo disillusione, frustrazione, ripetizione.

Mi accorgo che quello che si muove non è rifiuto, ma un attaccamento senza speranza.

Un gesto primitivo, come un bambino che sputa tutto ciò che gli viene offerto: non perché non abbia fame, ma per vedere se l’altro resta. Se è disposto a sopportare la sua impossibilità di accogliere, di digerire, di trasformare.

In terapia, questa dinamica si manifesta come transfert negativo non elaborabile: una forma relazionale in cui ogni proposta è svuotata, ogni appiglio è negato, ogni possibilità è subito dissolta nel dubbio.


La clinica del “non succede niente”


In queste situazioni è necessario togliere la parola cambiamento dal campo. Eliminare il concetto di aggiustare le cose.

I pazienti devono sentirsi liberi di restare. Non per risolvere, ma per portare qui tutta questa rabbia, la frustrazione, il fatto che non cambia niente. Perché se non la portano qui nella stanza della terapia, dove altro potrebbero metterla? 

Sono passaggi delicati dove i pazienti possono cambiare prospettiva e dirsi che almeno per ora, si può restare in uno spazio dove nulla succede, ma nessuno fugge.


La funzione del terapeuta in questi casi

In casi come questo, il terapeuta non è guida, non è contenitore trasformativo.

È testimone resistente del vuoto.

È qualcuno che non si attiva compulsivamente, che non si ritira, che resta accanto al muro — e lo guarda insieme al paziente.

In queste fasi, la terapia non guarisce.

Ma custodisce.

E per alcuni pazienti, questo è più terapeutico di ogni insight.


Viviamo in un tempo che ci chiede l’opposto: funzionare, migliorare, ottimizzare.

Anche la psicoterapia, sempre più spesso, viene ridotta a un servizio rapido, performativo, a distanza — quasi una prestazione mentale che deve produrre un effetto in tempi contenuti, possibilmente senza intoppi relazionali.

Come se l’obiettivo fosse togliere il sintomo, non attraversarlo.

Come se la relazione terapeutica non fosse una relazione vera, ma una simulazione di sicurezza senza rischio d’impatto.


Ma la cura, quella vera, è un’altra cosa.

È un incontro. Un campo affettivo complesso, fatto anche di silenzi, di frustrazioni, di stalli.

È una relazione che, per certi pazienti, deve reggere la loro impossibilità di reggere.

E solo se noi terapeuti sappiamo restare anche in quel non-funzionamento, anche nella delusione e nel vuoto, qualcosa può avvenire.


Lo vediamo ogni giorno, anche fuori dai nostri studi:

Adolescenti e adulti interagiscono tra loro attraverso schermi e filtri — non solo visivi, ma emotivi.

Non devono deludere, non devono fallire, non devono far vedere l’angoscia, la rabbia, la dipendenza.

Ma una terapia autentica è l’esatto contrario: è un luogo in cui poter essere anche brutti, stanchi, incoerenti, fermi.

Ed è lì che la clinica si fa etica: decidere di restare, quando non c’è niente da correggere, ma solo da contenere.


Conclusione


Ci sono momenti in cui la terapia non procede, non cresce, non evolve.

Ma se è in grado di reggere l’inutilità apparente, se può contenere anche il non-senso, allora qualcosa — in silenzio — si muove.

Perché non sempre il cambiamento inizia da un gesto.

A volte inizia da una permanenza senza condizione.



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Dott.ssa Susanna F. Murray
Psicologa Psicoterapeuta | Pesaro e Online


“Il corpo ci parla. La mente ci guida. 
La terapia ci accompagna a ritrovare noi stessi.”


Guadagnare senza colpa: psicologia del denaro e valore personale | dott.ssa Susanna F. Murray

Corso XI Settembre, 32, 61121 Pesaro PU, Italia

 
Foto di Corinne Kutz su Unsplash


"Il mio valore non si misura solo in euro”: affrontare il rapporto difficile con il denaro

Parlare di soldi mette a disagio molte persone. Per alcuni è un tabù, per altri una fonte continua di preoccupazione o senso di colpa. Ma ciò che spesso non viene detto è che il nostro rapporto con il denaro racconta molto di come ci percepiamo, delle nostre paure e della nostra storia personale.


Perché il denaro ci fa sentire inadeguate

Quante volte ti sei sentita a disagio nel chiedere il giusto compenso per il tuo lavoro? Oppure ti sei ritrovata a spendere impulsivamente per poi sentirti in colpa? O, ancora, hai provato vergogna nel parlare di soldi con il partner o la famiglia?


Il denaro non è solo uno strumento economico. È una lente attraverso cui osserviamo il nostro valore, la nostra capacità di prenderci cura di noi stesse, i nostri confini.


Libere professioniste: quando l'autonomia economica diventa un campo di battaglia interiore

Molte donne, soprattutto se autonome o imprenditrici, si trovano a dover negoziare continuamente il proprio valore. E qui emergono antiche ferite:

  • il bisogno di “essere brave” più che giuste,
  • la paura di sembrare egoiste o interessate solo al guadagno,
  • la difficoltà nel riconoscere il tempo e le competenze come qualcosa da retribuire.

Questo può portare a sottopagarsi, a non riuscire a chiedere aumenti, o a sentirsi in colpa quando si guadagna di più.


Da dove nasce questa difficoltà?

Il nostro rapporto con il denaro ha radici profonde: si forma nella famiglia, nella cultura in cui cresciamo, nei messaggi che riceviamo da piccoli su merito, sacrificio, abbondanza, povertà, successo.

Spesso in terapia emergono convinzioni limitanti come:

  • “Se guadagno troppo, perderò l’amore degli altri”
  • “Non mi merito il benessere economico”
  • “Chi ha soldi è arrogante o superficiale”

Portare luce su queste credenze è il primo passo per uscire da dinamiche ripetitive e blocchi interiori.


Il mio lavoro in studio: quando il denaro entra in terapia

Il tema del denaro tra le mie pazienti è più imbarazzante che parlare della propria sessualità. Credo di non aver sentito mai persone parlare di soldi, finché anni fa una paziente fece un'osservazione di disappunto vendendomi arrivare a lavoro con un'automobile nuova: in quel momento pensò che io mi ero concessa una cosa di valore e lei invece non l'aveva mai fatto.

Questo piccolo episodio ci permise di lavorare su cosa significasse avere denaro e spenderlo per qualcosa che ci facesse stare bene e ci facesse sentire di valore.

Perché il denaro non è un'oggetto che serve a pagare i conti a fine mese, è un modo in cui non ci relazioniamo con il valore che diamo a noi stesse.

Questo è molto evidente nelle giovani libero professioniste (o anche meno giovani) che magari lavorano bene ma vivono un profondo disagio a chiedere un giusto compenso, come se temessero di non essere meritevoli o peggio la sensazione imbarazzante del "chiedere" come se possano apparire bisognose o avide.

Nel mio lavoro aiuto le professioniste a capire le radici di questi pensieri autolimitanti e cosa li alimenta tuttora. Perché alcune difficoltà nel rapporto con il denaro sovente si rivelano anche difficoltà nelle relazioni con gli altri.


Iniziare a trasformare il proprio rapporto con il denaro

Un lavoro psicologico può aiutarti a:

  • individuare i messaggi ereditati sulla ricchezza e sulla scarsità;
  • sciogliere i sensi di colpa legati all’essere autonome o capaci;
  • dare valore al tuo tempo e ai tuoi confini;
  • costruire un equilibrio tra cura di sé, piacere e pianificazione.


Cambiare il modo in cui pensi e vivi il denaro può liberare risorse inaspettate: energia, progettualità, libertà.


Vuoi iniziare questo percorso?

Nel mio studio a Pesaro (o online) accompagno professioniste e persone in momenti di svolta personale e lavorativa. Se vuoi esplorare il tuo rapporto con il denaro e capire da dove partire, possiamo parlarne insieme in una seduta di consulenza psicologica e valutazione diagnostica.


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Dott.ssa Susanna F. Murray
Psicologa Psicoterapeuta | Pesaro e Online


“Il corpo ci parla. La mente ci guida. 
La terapia ci accompagna a ritrovare noi stessi.”


Endometriosi e benessere psicologico: il dolore invisibile che merita ascolto | dott.ssa Susanna F. Murray

Corso XI Settembre, 32, 61121 Pesaro PU, Italia


Endometriosi: non solo un problema fisico

L’endometriosi non colpisce solo il corpo. Chi ne soffre sperimenta anche un impatto emotivo profondo, che spesso resta invisibile agli altri. Dolore cronico, difficoltà nella vita quotidiana, senso di impotenza, paura legata alla fertilità: tutto questo può minare l’autostima, la fiducia in sé e la serenità nelle relazioni.

Molte donne con endometriosi convivono con sintomi invalidanti per anni prima di ricevere una diagnosi. E quando la diagnosi arriva, spesso è solo l'inizio di un percorso impegnativo. Il dolore non è solo fisico: è anche psicologico, relazionale, identitario.


Il legame tra dolore cronico ed equilibrio emotivo

Il dolore cronico incide in modo importante sulla psiche. A lungo andare, può portare a:
  • Stanchezza emotiva e senso di esaurimento;
  • Ansia anticipatoria del dolore;
  • Umore depresso, apatia, senso di solitudine;
  • Difficoltà nelle relazioni intime (anche sessuali);
  • Sensazioni di incomprensione da parte dell’ambiente sociale o sanitario.


Ecco perché un supporto psicologico può fare la differenza. Lavorare su questi aspetti consente di integrare meglio l’esperienza del dolore nella propria vita e, soprattutto, di non lasciarsi definire dalla malattia.


Il peso invisibile dell’endometriosi sulla vita quotidiana

Molte pazienti raccontano di sentirsi invisibili o addirittura non credute. Il dolore viene minimizzato, le difficoltà relazionali sottovalutate, e spesso chi sta intorno non riesce a capire davvero quanto impatti vivere con questa condizione ogni giorno.

  • Spesso la frustrazione nasce non solo dal dolore in sé, ma dall’effetto domino che produce:
  • Interruzione della carriera o difficoltà nel mantenerla;
  • Rinunce nel tempo libero o nella socialità;
  • Complicazioni nella vita di coppia o nel desiderio di maternità.
  • Dare voce a questa realtà è fondamentale per restituire dignità a chi vive con l’endometriosi.

La mia esperienza in studio con pazienti affette da endometriosi

Ho scelto di lavorare con le donne che presentavano una diagnosi di endometriosi dopo aver scoperto che è un genere di problematica (forse perché esclusivamente femminile) piuttosto ignorata dalla ricerca clinica in psicoterapia, anche da orientamenti teorico-tecnici differenti.

L'endometriosi in psicoterapia resta una grande buco clinico nella ricerca e strutturazione di una strategia di supporto psicoterapeutico. Questo genera spesso una scarsa comprensione da parte di chi si occupa di psicoterapia delle conseguenze sulla psiche delle donne che devono affrontare una diagnosi del genere,  anche perché manca una conoscenza della condizione medica di questa tipologia di pazienti.

L'endometriosi è un problema di salute che porta molte donne a sentirsi sminuite e svalutate, già nel contesto familiare e lavorativo, conducendole a vivere con profondi sensi di colpa le loro difficoltà fisiche e psicologiche. In una parola l'endometriosi genera una profonda solitudine in chi ne è affetta.

Ed è da qui che spesso inizio il mio lavoro: insegnare alle mie pazienti a dare voce e valore a ciò che sentono e pensano. Validare paure e rabbia, per creare all'interno dello spazio terapeutico un primo luogo dove potersi affermare e accogliere, portando poi con il tempo questa maggiore autostima e consapevolezza anche nelle relazioni con gli altri e con altre figure professionali del loro percorso di cura medico.


Psicoterapia ed endometriosi: un percorso per ritrovare sé stesse

Il percorso psicologico non ha come obiettivo “far passare il dolore”, ma dare senso all’esperienza. Lavorare in terapia può aiutare a:

  • Recuperare una narrazione positiva di sé, oltre la malattia;
  • Riconoscere e accogliere le proprie fragilità senza giudizio;
  • Riappropriarsi del diritto al piacere, al riposo, al desiderio;
  • Superare il senso di colpa o inadeguatezza legato alla propria condizione;
  • Prepararsi a dialogare in modo più efficace con il personale medico.


La psicoterapia come spazio di ascolto e forza

In psicoterapia lavoriamo su diversi livelli:

  • Accettare e nominare il dolore, senza sentirsi sbagliate o deboli;
  • Gestire le emozioni intense e la frustrazione legata alle limitazioni;
  • Riscoprire il corpo come alleato, non solo come fonte di sofferenza;
  • Potenziare le risorse personali e rafforzare l’identità, anche nei momenti difficili;
  • Imparare a comunicare i propri bisogni (anche medici) con più assertività.


Puoi trovare uno spazio in cui essere ascoltata

Se stai vivendo con l’endometriosi e senti che questa condizione sta influenzando anche la tua emotività, la tua vita di relazione o il tuo benessere generale, non devi affrontarla da sola. La psicoterapia può essere un percorso concreto per prenderti cura non solo del corpo, ma anche di te.


Nel mio studio a Pesaro (oppure online), offro la possibilità di una prima consulenza psicologica e una valutazione diagnostica, in cui ti aiuto a esplorare quello che stai vivendo e a individuare i primi passi per stare meglio.


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Dott.ssa Susanna F. Murray
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“Il corpo ci parla. La mente ci guida. 
La terapia ci accompagna a ritrovare noi stessi.”


Binge eating: quando il cibo diventa un rifugio (che fa male) | dott.ssa Susanna F. Murray

Corso XI Settembre, 32, 61121 Pesaro PU, Italia

Foto di Shane su Unsplash



Il bisogno di riempire un vuoto

Ti è mai capitato di sentirti travolto da un impulso incontrollabile di mangiare, anche se non avevi realmente fame? 

Magari da solo, di sera, con la sensazione di dover colmare un vuoto emotivo piuttosto che fisico. 

Il binge eating, o alimentazione compulsiva, si manifesta spesso così: come un rifugio che promette sollievo ma lascia solo senso di colpa e confusione.

Che cos’è il binge eating

Il binge eating, o disturbo da alimentazione incontrollata, è un comportamento alimentare caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, durante i quali la persona mangia grandi quantità di cibo in un breve periodo, sentendosi fuori controllo. Spesso avviene in solitudine, accompagnato da vergogna, senso di colpa e tristezza. A differenza della bulimia, non ci sono comportamenti compensatori (come vomito o esercizio fisico eccessivo), e questo può portare a un aumento di peso e a un deterioramento dell’autostima.

Quando il cibo diventa una risposta emotiva

Molte persone che soffrono di binge eating non mangiano per fame, ma per gestire emozioni difficili: ansia, stress, frustrazione, solitudine, o addirittura noia. Il cibo diventa una sorta di “coperta” emotiva, un modo per non sentire dolore o vuoto. Ma subito dopo arriva il senso di colpa, la delusione verso sé stessi, e la sensazione di aver perso il controllo.

La mia esperienza con questo problema in studio

Mi occupo di disturbi del comportamento alimentare da oltre 20 anni. Mi sono formata con molto aggiornamenti sui dca nel corso degli anni e ho lavorato come specializzanda in un servizio ambulatoriale DCA. 
Quello che mi ha sempre colpito, nel lavoro con chi vive un rapporto complicato con il cibo, è il tema dell'indipendenza che spesso è un nodo critico e altresì bisogno costante di questi pazienti: desiderare di non dipendere mai da nessuno.
Nei casi di binge eating quello che osservo nei miei pazineti è il trovare nel cibo un interlocutore che non delude, una relazione fatta di soddisfazione e che non ha aspettative. Il cibo è lì nella dispensa o nel frigo: se vogliamo interagirci possiamo farlo, se non vogliamo non ci verrà ad invadere come spesso sentiamo nelle relazioni con gli altri. Ma soprattutto il cibo è lì per noi, sempre disponibile.
Nel lavoro terapeutico con chi soffre di binge eating uno dei momenti più complicati è quando iniziano a stare meglio, magari perdono peso e il cibo non è più una strategia quotidiana ed allora arriva la paura di non riconoscersi, di cambiare identità e dover affrontare tutto il mondo delle relazioni oltre il cibo.
La sfida nella cura del binge eating è proprio accogliere nuove relazioni che non siano con il cibo, e accettare il rischio di soffrire nel momento in cui si creano relazioni significative e importanti.


Come si lavora in terapia sul binge eating

Il lavoro psicoterapeutico sul binge eating non riguarda solo il comportamento alimentare, ma punta a comprendere cosa c’è sotto: quali emozioni, traumi o convinzioni profonde alimentano il disagio. In terapia:

  • Si impara a riconoscere e gestire le emozioni senza passare per il cibo;
  • Si lavora sulla relazione con il corpo, spesso segnata da giudizi e vergogna;
  • Si costruisce un nuovo rapporto con sé stessi, più gentile, consapevole e autonomo.

Quando è il momento di chiedere aiuto

Se hai riconosciuto alcuni di questi vissuti, non sei solo/a.

Il binge eating è molto più diffuso di quanto si pensi, e affrontarlo con un professionista può fare davvero la differenza. Quando il cibo diventa l’unico modo per gestire la sofferenza, è tempo di trovare un altro linguaggio, un altro modo per ascoltarti.


Il viaggio della terapia per iniziare a stare meglio

Iniziare un percorso di psicoterapia non significa solo “smettere di abbuffarsi”, ma ritrovare un equilibrio con il proprio corpo, con le emozioni, con la vita di tutti i giorni. 

Nel mio studio a Pesaro (oppure online), offro la possibilità di una prima consulenza psicologica e di valutazione diagnostica, in cui ti aiuto a esplorare quello che stai vivendo e a individuare i primi passi per stare meglio.



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© dott.ssa Susanna Murray - Psicologa Psicoterapeuta Pesaro. Design by Fearne.