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Foto di Vlad Zaytsev su Unsplash |
Ci sono casi in cui i pazienti non si oppongono alla terapia. Non la ostacolano apertamente, non la interrompono. Ma neanche cambiano.
Restano.
Settimana dopo settimana, portando in seduta la sensazione che tutto sia fermo, sterile, “inutile”.
Come terapeuti, siamo abituati a tollerare il dolore, la rabbia, la resistenza.
Ma il gelo dell’impasse è un'altra cosa. È un paziente che viene, si siede, e sembra dirci: “Ecco, vede? Non serve a niente. Sono ancora così. E lei non può farci nulla.”
La tentazione di lasciar andare
Quando la terapia diventa un palcoscenico muto, in cui ogni parola scivola via, può emergere nel terapeuta il desiderio di lasciare andare.
Non per stanchezza personale, ma perché si ha l’impressione che non stia accadendo più nulla di terapeutico.
Il paziente, in queste fasi, spesso arriva a dire: “Non vedo cambiamenti. Forse è inutile continuare.”
Ma proprio in quel “forse è inutile” si nasconde qualcosa.
Una richiesta mascherata.
Un test.
Una ferita.
“Resterai anche se non mangio?”
Con alcuni pazienti a volte sento chiaramente che il punto non è più il cambiamento.
Il punto è restare nella relazione anche quando portano solo disillusione, frustrazione, ripetizione.
Mi accorgo che quello che si muove non è rifiuto, ma un attaccamento senza speranza.
Un gesto primitivo, come un bambino che sputa tutto ciò che gli viene offerto: non perché non abbia fame, ma per vedere se l’altro resta. Se è disposto a sopportare la sua impossibilità di accogliere, di digerire, di trasformare.
In terapia, questa dinamica si manifesta come transfert negativo non elaborabile: una forma relazionale in cui ogni proposta è svuotata, ogni appiglio è negato, ogni possibilità è subito dissolta nel dubbio.
La clinica del “non succede niente”
In queste situazioni è necessario togliere la parola cambiamento dal campo. Eliminare il concetto di aggiustare le cose.
I pazienti devono sentirsi liberi di restare. Non per risolvere, ma per portare qui tutta questa rabbia, la frustrazione, il fatto che non cambia niente. Perché se non la portano qui nella stanza della terapia, dove altro potrebbero metterla?
Sono passaggi delicati dove i pazienti possono cambiare prospettiva e dirsi che almeno per ora, si può restare in uno spazio dove nulla succede, ma nessuno fugge.
La funzione del terapeuta in questi casi
In casi come questo, il terapeuta non è guida, non è contenitore trasformativo.
È testimone resistente del vuoto.
È qualcuno che non si attiva compulsivamente, che non si ritira, che resta accanto al muro — e lo guarda insieme al paziente.
In queste fasi, la terapia non guarisce.
Ma custodisce.
E per alcuni pazienti, questo è più terapeutico di ogni insight.
Viviamo in un tempo che ci chiede l’opposto: funzionare, migliorare, ottimizzare.
Anche la psicoterapia, sempre più spesso, viene ridotta a un servizio rapido, performativo, a distanza — quasi una prestazione mentale che deve produrre un effetto in tempi contenuti, possibilmente senza intoppi relazionali.
Come se l’obiettivo fosse togliere il sintomo, non attraversarlo.
Come se la relazione terapeutica non fosse una relazione vera, ma una simulazione di sicurezza senza rischio d’impatto.
Ma la cura, quella vera, è un’altra cosa.
È un incontro. Un campo affettivo complesso, fatto anche di silenzi, di frustrazioni, di stalli.
È una relazione che, per certi pazienti, deve reggere la loro impossibilità di reggere.
E solo se noi terapeuti sappiamo restare anche in quel non-funzionamento, anche nella delusione e nel vuoto, qualcosa può avvenire.
Lo vediamo ogni giorno, anche fuori dai nostri studi:
Adolescenti e adulti interagiscono tra loro attraverso schermi e filtri — non solo visivi, ma emotivi.
Non devono deludere, non devono fallire, non devono far vedere l’angoscia, la rabbia, la dipendenza.
Ma una terapia autentica è l’esatto contrario: è un luogo in cui poter essere anche brutti, stanchi, incoerenti, fermi.
Ed è lì che la clinica si fa etica: decidere di restare, quando non c’è niente da correggere, ma solo da contenere.
Conclusione
Ci sono momenti in cui la terapia non procede, non cresce, non evolve.
Ma se è in grado di reggere l’inutilità apparente, se può contenere anche il non-senso, allora qualcosa — in silenzio — si muove.
Perché non sempre il cambiamento inizia da un gesto.
A volte inizia da una permanenza senza condizione.
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